“La Palestina ci sarà, ma né io né lei vivremo abbastanza per vederla”
Il paradiso probabilmente è un film del 2019 diretto da Elia Suleiman, dove il regista racconta di sé stesso e dell’occupazione della sua terra. In concorso al festival di Cannes, il film ha ricevuto una menzione d’onore.
Il regista non è nuovo a questo genere di racconto. Intervento divino era addirittura andato vicino ad una candidatura all’Oscar. Ma le candidature agli Oscar devono essere rappresentative di una nazione e – a detta dell’Academy – la Palestina non è uno stato sovrano. Intervento divino è stato escluso dunque dalla lista di papabili per la statuetta. Un fatto che andrebbe messo davanti agli occhi di chi si ostina a dire che “cinema” e “politica” non dovrebbero mai incontrarsi.
Nessun posto è bello come casa mia, ripeteva Dorothy sul finale de Il mago di Oz (1939). In effetti si può viaggiare in lungo e in largo per il globo, ma i sapori, gli odori e il calore della propria terra natale avranno per noi sempre un valore unico.
Anche Elia Suleiman vorrebbe pensarla così, ma l’occupazione israeliana della sua terra lo ha reso straniero in casa propria. Non riconosce più come sue quelle stradine sterrate, quelle case scalcinate, quegli alberi e quelle colline brulle che compongono la terra palestinese.
Stanco di questa sensazione e deciso a trovare un posto da poter finalmente chiamare “casa”, Suleiman prende il primo volo per la Francia. Durante il suo viaggio entra in contatto con tutte le contraddizioni e le storture del mondo occidentale.
Da una polizia consumata dal pregiudizio, che stabilisce la pericolosità delle persone in base all’appartenenza etnica, ad individui che antepongono sistematicamente il proprio interesse a quello di chi li circonda. Da un sistema che ha fatto della disuguaglianza economica un pilastro talmente solido da non considerarla neanche più come un problema, ad una società che si riempie la bocca con la causa palestinese senza avere realmente a cuore le vicissitudini di un popolo che non si stanca di chiedere giustizia.
Il paradiso probabilmente è carico di un’ironia pungente e caricaturale, che strizza l’occhio al cinema muto di Chaplin e Buster Keaton, e che – al netto di qualche gag meno riuscita – porta avanti una potente critica politica.
Silenzi prolungati, situazioni ripetute più volte e musica spesso assente rendono tangibile l’alienante senso di oppressione che riempie il cuore del protagonista.
Suleiman si presenta come un uomo isolato, disperso in un mondo che non comprende il suo dolore. Rassegnato all’idea di non poter vedere con i propri occhi la fine dell’occupazione israeliana e la nascita dello stato palestinese.
Un film che parla a chi avrà la pazienza di ascoltarne i silenzi e di capire lo straziante dolore che anima ogni inquadratura, ogni silenzio e ogni riga di sceneggiatura. Dove il regista, insieme alla voglia di esprimersi, racconta la paura di non trovare nessuno disposto ad ascoltare una storia così intima e personale.
Suleiman rappresenta le contraddizioni del mondo attraverso elementi surreali, che non impediscono però alla pellicola di rimanere attinente alla realtà. Una tragica realtà – quella del popolo palestinese – di fronte alla quale il mondo sembra essersi voltato dall’altra parte.