Le vicissitudini della vita presto o tardi costringono ognuno di noi, nell’arco della nostra esistenza, a chiederci come possiamo reagire di fronte alla dipartita di una persona che abbiamo amato. Non esiste una soluzione universale a un problema simile. Possiamo arrovellarci il cervello fino allo sfinimento, cercare consigli dappertutto, dai saggi ai motori di ricerca. La verità è che per quanto gli altri possano aiutarci nella nostra lotta, la motivazione ad andare avanti deve necessariamente scaturire da noi stessi. Per farlo occorre però prima razionalizzare il problema. Ed è su questo punto che i libri possono venirci incontro.
Incontrare l’assenza
Qualche giorno fa ho preso tra le mani un saggio di Massimo Recalcati, famoso psicoanalista milanese, dal titolo: Incontrare l’assenza. Il trauma della perdita e della sua soggettivazione. Si tratta della trascrizione, curata dall’autore stesso, di un suo intervento in occasione di un Master tenuto all’Alma Mater Studiorum, la prestigiosa Università di Bologna, nel 2015. Il titolo ossimorico ha subito colpito la mia curiosità: come è possibile incontrare qualcuno che non c’è più? Ho iniziato a leggere quest’opera con la consapevolezza che non ci avrei trovato delle risposte definitive, bensì delle prospettive adatte da cui guardare problemi solo apparentemente irrisolvibili.
Lo studioso, rileggendo il celebre articolo freudiano Melanconia e lutto (1915), analizza gli atteggiamenti più frequenti di chi si trova nella situazione di aver perso una persona cara (sia a causa di un lutto sia per ragioni differenti: abbandono, tradimento, chiusura di un rapporto, fine di una relazione sentimentale). Sono due le reazioni principali definite patologiche: la prima, di tipo maniacale; la seconda, di tipo melanconico. Osserviamole più da vicino.
L’atteggiamento maniacale
La reazione maniacale comporta una negazione del lutto. La sofferenza è talmente forte da non riuscire ad affrontarla, perciò si finge che nulla sia successo, che tutto proceda esattamente come prima. Non solo: si fa di tutto per cercare di sostituire l’oggetto perduto con uno nuovo, in grado di sopperire alla mancanza del primo. Un atteggiamento simile è dannoso perché, evitando di affrontare il dolore, si cercano delle scappatoie che, alla fine, non possono che rivelarsi delle strade senza uscita.
L’atteggiamento melanconico
La reazione melanconica è l’esatto opposto dell’atteggiamento maniacale. Il melanconico non allontana il dolore da sé: non lo lascia più andare via. Il lutto diventa un‘ossessione e il pensiero della persona assente non lascia tregua. Ci si convince che la nostra vita è finita, che non possiamo più essere felici, che l’oggetto sparito rappresentava il nostro mondo, un arto del nostro stesso corpo, e niente e nessuno potrà mai prendere il suo posto. Ci si attacca in maniera morbosa alle fotografie, ai regali, ai ricordi, unici mezzi in grado di restituirci la parvenza di una presenza.
Il lavoro del lutto
L’analisi dei due atteggiamenti patologici – quello maniacale e quello melanconico – fa emergere un punto essenziale: il dolore va affrontato, altrimenti non si creano le basi per poter guarire dal lutto; tuttavia, non si tratta di schiantarsi a massima velocità contro un muro, bensì di prendersi tutto il tempo necessario per sfogare il dolore, rimpiangere il nostro affetto, perché è solo nel nostro ricordare la persona che se ne è andata – nel nostro incorporarla – che possiamo dimenticarla (“dimenticare” va qui riferito alla sofferenza cui associamo l’oggetto sparito, come se l’oggetto e lo stato d’animo di chi lo piange diventassero un’unica entità: non più persona, ma dolore puro).
Ricordare per dimenticare
Il lavoro del lutto esige che non si chiudano definitivamente i ponti con il passato né che ci si auto-imprigioni in una fortezza di dolore permanente. L’assenza di una persona non può e non deve essere un motivo per trascurare la nostra vita. La mortalità è intrinseca alla natura umana e nessuno di noi ne è invulnerabile. I ricordi sono tutto ciò che di più bello ci rimane, non contaminiamoli con le nostre emozioni negative.
Come ho già anticipato all’inizio dell’articolo, non ci sono delle risposte, solo delle prospettive utili a razionalizzare qualcosa di potenzialmente distruttivo, se ci si lascia completamente sprofondare senza salvagente nei propri stati psichici.
Recalcati sottolinea quanto il lavoro del lutto sia lungo e difficile. La parola chiave è tempo, soprattutto in una società in cui il tempo assume sempre più i connotati di qualcosa di sfuggevole, di cui sembra che non ne siamo dotati a sufficienza.
Conclusione
Consiglio questo saggio perché, pur nella sua brevità e nell’apparente freddezza tipica di chi studia la mente umana come fosse un corpo da vivisezionare, propone dei punti di vista che possono essere di aiuto a chi pensa di non riuscire a trovare la via d’uscita da un tunnel privo di luce.